venerdì 6 marzo 2015

Barilla: un approccio Glocal


Se in tanti settori di nostra competenza noi italiani riusciamo a farci sfilare il primato dalle mani, per fortuna questo non è il caso della pasta secca, dove a dominare è un’azienda italiana, top of mind per la maggior parte del grande pubblico: la Barilla. Fondata da Pietro Barilla nel 1877 a Parma come bottega che produceva pane e pasta, l’azienda si evolve lungo quattro generazioni che hanno portato l’azienda al successo prima nazionale, poi globale. Con l’arrivo di Guido, Luca, Paolo ed Emanuele alla direzione aziendale, il gruppo ha cercato di mantenere costante il trend relativo al processo di internazionalizzazione tramite l’acquisto di aziende in vari paesi del mondo. Attualmente Barilla è presente in più di 125 paesi nel mondo, ha un fatturato di poco inferiore ai 4 miliardi di euro ed un utile netto di 76 milioni di euro.


 Senza addentrarci nuovamente sull’infelice dichiarazione fatta da Guido a Radio 24 che ha fortemente allontanato il mondo omosessuale dal brand, appare interessante analizzare la strategia adottata da Barilla per il suo processo di internazionalizzazione.
Facendo un passo indietro, questa tendenza nel settore della pasta secca nel suo complesso è iniziato negli anni ’90. Fino ad allora infatti la maggior parte delle imprese operava a livello regionale, raggiungendo i mercati esteri solamente tramite le esportazioni. Nonostante ciò la pasta italiana era già conosciuta ed apprezzata all’estero grazie ad una discreta diffusione nel mondo della dieta mediterranea e ad un’elevata presenza in paesi quali Germania e Stati Uniti di consumatori italiani.
La vera svolta nelle strategie delle aziende italiane avvenne in reazione all’ingresso di multinazionali estere nel mercato italiano: nel 1988 Nestlè comprò Buitoni e due anni dopo BSN comprò la quota di maggioranza di Agnesi. Fu quindi Barilla a guidare la controffensiva dei produttori italiani tramite un massiccio investimento in comunicazione e promozioni che gli permise di aumentare e consolidare la sua fetta di mercato, sia in Italia che all’estero. Benché l’azienda avesse già aperto una filiale in Francia negli anni ’70, fu proprio in questo periodo che il top management comprese la differenza tra esportazione e business a livello mondiale, iniziando ad acquisire varie aziende in molti paesi.
A questo punto la sfida fu quella di cambiare il modo in cui affrontare i mercati, diventare più strategici e comprendere qual era la modalità adeguata per entrarvi. Fondamentale era quindi dare risposte differenziate alle pressioni di adattamento locale. Tuttavia in tutti i mercati in cui opera, l’azienda offre sempre lo stesso prodotto core i cui punti di forza sono la qualità, il prezzo e i valori aziendali. Oltre a elementi relativi al prodotto quali il packaging (unica pasta in questa fascia ad avere la confezione di cartone) e l’estensione della gamma, è la comunicazione di valori di cui l’azienda si fa portatrice che fa la differenza. In Italia infatti il brand è riuscito a costruire un forte binomio tra Barilla e casa, e quindi tutti i valori legati alla famiglia, ovviamente rigorosamente tradizionale (nonostante le scuse di Guido ancora non sono comparse coppie gay). In molti paesi esteri invece l’associazione creata è stata naturalmente quella tra Barilla e qualità italiana. 


Una cosa molto interessante da notare è che andando sui siti Barilla dei vari paesi esteri, al di là del prodotto core, e del comune richiamo al made in Italy vengono promossi prodotti completamente diversi ed inesistenti persino in Italia. Prendendo il caso degli Stati Uniti ad esempio, nonostante il claim “the choice of Italy” in questo paese vengono commercializzati vari prodotti che farebbero letteralmente rabbrividire un italiano: le Barilla Pronto, le ProteinPlus e le Italian-Style Entreés. Le prime di queste si caratterizzano per avere dei tempi di preparazione veramente rapidi; basta infatti versare la pasta direttamente in una padella, coprirla con 3 bicchieri d’acqua ed aggiungere la propria salsa (Barilla) preferita dopo pochi minuti senza neanche scolarla. 













Il secondo prodotto è invece un tipo di pasta arricchito con proteine vegetali, un mix che per noi può apparire alquanto disgustoso ma che è sicuramente gradito al consumatore statunitense[i]













Infine l’ultima linea di prodotti è quella che a mio parere potrebbe essere definita da un buongustaio italiano “da codice penale”: le Italian-Style Entreés. Questo piatto prelibato consiste infatti in una vaschetta da mettere al microonde che contiene separatamente della pasta precotta ed una salsa a scelta disponibile anche al gusto pollo[ii].














Incrociando le dita perché questi piatti non arrivino mai in Italia, c’è da dire che ad ogni modo l’impronta data all’azienda è sicuramente vincente: associare l’idea del made in Italy a piatti in realtà adattati sul contesto locale è un ottimo modo di fare business. Con questa strategia di marketing ed un buon corso di comunicazione a Guido possiamo star certi che in futuro le vendite non subiranno altri cali.







 Eric Martignon

lunedì 2 marzo 2015

Polaroid: la rinascita “istantanea” di un brand

Quanti di voi usano Instragram?! Ecco il social media sulla fotografia più diffuso al mondo quasi sicuramente non esisterebbe se nel 1929 uno studente di Harward, Edward H. Land non avesse brevettato un foglio di plastica QUADRATO su dove polarizzare la luce. Infatti sono passati quasi 90 anni dalla nascita della Polaroid Corporation, storica azienda leader della fotografia istantanea, che Instagram ha voluto omaggiare proprio con la foto “quadrata” e alcuni filtri fotografici vintage, in tipico stile Polaroid. Forse è proprio grazie a questo social che l’azienda statunitense è rinata negli ultimi anni, ma procediamo per gradi.


L’azienda negli anni 30, inizia a perfezionare il prototipo sopracitato, il così detto J-SHEET, fino al 1938 quando nasce l’ H-SHEET, un polimero (PVA) impregnato di iodio il quale verrà utilizzato per la creazione della maggior parte dei prodotti Polaroid tra cui schermi LCD in età moderna, microscopi ottici e lenti per occhiali da sole. A metà degli anni 40 inizia la produzione e la vendita dei primi modelli di macchine fotografiche istantanee, diventando pian piano leader di mercato anche grazie a modelli come la Swinger, uscita nel 1965 e diventato subito popolarissimo anche grazie al suo modico prezzo (20 Dollari), o la OneStep, uscita negli anni 70 e diventa la macchina fotografica più venduta dall’azienda.


A contornare una strategia aziendale già vincente, una famosissima campagna pubblicitaria uscita nel 1972 con un testimonial d’eccezione, il famoso attore Sir Lawrence Olivier.
Negli anni 80 inizia la guerra tra i brand, soprattutto con l’altro colosso fotografico, Kodak il quale sviluppò macchine fotografiche e pellicole autosviluppanti ma che si differenziavano dalla concorrenza per la forma rettangolare delle fotografie (9 x 6,8). Dopo una battaglia a suon di brevetti, la Polaroid la spuntò nel 1986, quando Kodak si ritirò da questa fascia di mercato.
La strategia vincente di quest’azienda, una tecnologia innovativa (almeno per l’epoca) unita ad un costo relativamente alla portata di tutti e correlata con l’unicità del prodotto, non ha aiutato a sostenere l’avvento tecnologico del digitale, il quale è piombato come una mannaia sull’azienda fino a quando nel 2008, la stessa Polaroid ha dichiarato la cessazione della catena produttiva delle pellicole istantanee.
Inoltre dal punto di vista giudiziario, l’azienda ha passato un bruttissimo periodo: infatti alcuni membri del Petters Group Worldwide, che aveva rilevato l’azienda anni prima, vennero indagati per frode fiscale portando questo storico marchia quasi alla bancarotta.
Ma come la fenice che risorge dalle sue ceneri, la Polaroid rinasce nel 2009, quando Scott Hardy prende in mano l’azienda. Hardy cambia completamente la strategia dell’azienda, non guardando più al passato, ma puntando al futuro, senza dimenticare l’importanza della storia del brand. Polaroid inizia così a vendere le licenze (soprattutto inerenti alla tecnologia della polarizzazione creata dalla stessa azienda americana) per la produzione di televisori LCD e dispositivo mobile non abbandonando la fotografia naturalmente.
Sono nati così una serie prodotti tecnologici griffati Polaroid, come ad esempio i famosi tablet low-cost con sistema operativo Android, costruiti dall’ azienda francese Market Maker BrandLicensing che stanno anche riscuotendo un notevole successo. Inoltre non dimentichiamo la famosa linea di occhiali vintage, anch’essi molto apprezzati ma venduti nel 2011 all’italiana Safilo.






Ma il primo amore non si scorda mai. Sfruttando le nuove tecnologie e la ritrovata passione per il vintage, soprattutto da parte di un target giovane, la Polaroid ha sviluppato nuove fotocamere digitali come la Z2300 o la Socialmatic, capaci entrambe di stampare al momento le fotografie scattate. L’ultimissimo prodotto partorito dall’azienda è Cube, una videocamera cubica dalle dimensioni ridotte, che registra filmati in HD e che si posiziona come una possibile concorrente della GoPro, videocamera apprezzata soprattutto dagli amanti di sport estremi. Forse questa mossa è un azzardo, cercare di entrare in una fascia di mercato ma la forza del brand e la ritrovata linfa vitale sono due ottimi punti di partenza.


Beppe Doronzo
(@Peppe_Doronzo)



venerdì 13 febbraio 2015

Wonderbra: mai più in alto!


Lo ricordate?






Era il 1994 quando Eva Herzigova, per lanciare il primo push-up al mondo, esordiva su un cartellone pubblicitario così: “Hello boys”.

Il claim, che tanto è piaciuto agli uomini ma che ha anche incuriosito tutte le donne, ha avuto un impatto gigantesco, diventando così icona indiscussa dell’intimo. Addirittura la leggenda narra che negli incroci dove il cartellone era esposto siano raddoppiati il numero di incidenti, diciamo la verità, tutti avremmo girato la faccia per guadare quel decolletè!
Ad incoronare il successo della campagna arriva l’esposizione al Victoria and Albert Museum di Londra, ed è stato votato tra i migliori cartelloni pubblicitari del secolo!
Da allora però il modo di fare comunicazione della Wonderbra non ha mai perso smalto!












Ma cosa si cela dietro a tanta genialità?

Wonderbra viene lanciato nel 1994 nel mercato USA, il nome deriva dall’innovazione tecnologica, infatti con l’inserimento di una barra diagonale all’interno della classica coppa e allacciando il tutto alla tracolla, il risultato è uno stato di piacere generato dal sostegno recato ma anche dalla libertà di movimento concessa. Un reggiseno super, wonderbra.

Più recentemente, nel 2008,  ben 3000 donne del Regno Unito dichiarano il push-up come la più grande innovazione di sempre, addirittura le intervistate hanno quasi raggiunto l’unanimità sulla scelta del wanderbra.

Tutto questo perché, come vi abbiamo già raccontato per la Barbie (vedi articolo http://pop-idea.blogspot.it/2015/01/barbie-oltre-i-glitter.html) anche il "deccolletè delle meraviglie" si riferisce solamente a un pubblico femminile mettendo anche esso al centro i valori. 

Questa volta però cerchiamo di capire quali siano i benefici e gli attributi di questo indumento con uno strumento markettaro: la catena mezzi-fini.




Elaborazione propria su adattamento della tecnica MeansEnd chain.

La catena mezzi-fini si propone di analizzare e descrivere la rete di legami esistente tra prodotto e consumatore, individuando le caratteristiche (attributi) che il consumatore considera più importanti nella scelta di un prodotto e collegandole ad un modello sequenziale di motivazioni. All’interno del modello gli attributi del prodotto rappresentano i mezzi in grado di produrre benefici, a loro volta idonei a soddisfare i valori degli individui, cioè il fine: da cui il termine “analisi mezzi-fini” (o MeansEnd Chain Analyses).

Gli attributi sono elementi relativamente concreti e oggettivi, che si riferiscono alle caratteristiche specifiche del prodotto, quali la quantità di grasso, l’aspetto, l’origine, il metodo di produzione ecc. I benefici, essendo conseguenze dell’uso del prodotto, possono essere ad esso funzionali (tangibili) o intangibili (psicologici: come mi sento?; sociali: come mi vedono gli altri?). I valori sono gli obiettivi astratti e le preoccupazioni motivazionali (ad esempio, il divertimento, il rispetto personale, la sicurezza, ecc.). Essi rappresentano gli ideali più elevati dell’individuo, i sentimenti e il modo in cui gli altro lo considerano[1]

Nel nostro caso una soluzione innovativa, sommata a un design aggressivo portano ad un valore finale che è non solo la bellezza ma anche l’accettazione del proprio corpo. Il benessere e la sicurezza, il sostegno e la comodità sono i benefici funzionali e simbolici che provengo dall' innovazione dell’irrinunciabile reggiseno.

È inutile dire che i valori siano l’ingrediente segreto per una ricetta vincente, se però a tutto questo inseriamo un pizzico di ironia e vivacità che la nota società è riuscita ad avere, il successo è assicurato!

Ah dimenticavo, se indossi un wonderbra in metro…  stai dietro alla giusta linea gialla!


                                                                                                                      Luigi Sciarra



[1] Materiale didattico Seconda Università degli Studi di Napoli, Capua, anno 2013-14

sabato 7 febbraio 2015

Un Big Mac è per sempre


  Quanti di voi conoscono il Big Mac? Probabilmente il 100% di chi sta leggendo quest’articolo ne ha mangiato almeno uno nel corso della propria vita e una buona fetta di questi – che possiamo definire come qualunque persona dotata di coscienza - si è sentito poi in soggezione difronte al panino considerato uno dei simboli del capitalismo, della globalizzazione e dell’obesità americana. Pertanto, parlare del Big Mac non è sicuramente una cosa facile. Fatto sta che quando nel lontano 1968, il franchiser di Pittsbugh Jim Deligatti inventò questo panino non avrebbe mai immaginato che nel giro di qualche anno sarebbe diventato una delle cash cow di Mc Donald’s, commercializzato su base planetaria come prodotto di punta del colosso statunitense. 
Risulta comunque molto difficile riuscire a scindere il successo del Big Mac da quello del Mc Donald’s stesso. Efficienza, rapidità, familiarità e standardizzazione dell’esperienza, ovvero riuscire a dare al cliente la stessa esperienza in ogni Mc Donald’s del mondo, sono gli elementi su cui si basa il modello del Mc, i quali, mescolandosi chimicamente, hanno creato l’ecosistema perfetto all’interno del quale inserire un prodotto altrettanto perfetto. Il Big Mac in questo caso ha calzato a pennello. Un esempio lampante della notorietà e diffusione del prodotto è sicuramente il Big Mac Index creato dall’Economist, utilizzato in molti manuali per spiegare la teoria macroeconomica della parità dei poteri d’acquisto[1]
Fonte: The Economist

Evitando di addentrarci in teorie economiche un po’ troppo tecniche, in questo breve articolo è sicuramente interessante richiamare due strategie di advertising e comunicazione temporalmente molto distanti tra loro, ma entrambe di successo. La prima, totalmente sconosciuta al pubblico italiano, consiste nel Two all-beef patties slogan, lanciato negli anni ’70 negli Stati Uniti e successivamente in altri paesi anglofoni. In questa campagna, il gingle mandato in onda recitava molto velocemente tutti gli ingredienti del panino - Two all-beef patties, special sauce, lettuce, cheese, pickles, onions – on a sesame seed bun[2]. Risultato: ad oggi molti consumatori americani e non, conoscono a memoria gli ingredienti del Big Mac. Contestualmente veniva indetto un concorso per cui i clienti che riuscivano a ripetere il gingle in un tempo determinato (3-4 secondi) ottenevano un panino gratis. Emblema del successo di questa operazione fu il fatto che dopo la prima messa in onda della pubblicità i Mc Donald’s di New York si trovarono nel giro di qualche giorno completamente a corto di Big Mac. 
Il secondo esempio di comunicazione efficiente è invece recentissimo. Nelle ultime settimane sono apparsi dei nuovi cartelloni pubblicitari di alcuni prodotti targati Mc Donald’s, tra cui il Big Mac. Rispetto alle solite promozioni, queste affissioni ritraggono i prodotti (Big Mac, Mc Nuggets e patatine) disegnati a colori in maniera stilizzata, su uno sfondo completamente bianco e senza alcun tipo di scritta. La scelta di questo stile minimal punta probabilmente ad un duplice obiettivo. In primis a catturare l’attenzione; in una società in cui il consumatore è sovra stimolato dalle pubblicità, rendersi “leggero” ed essenziale è un’arma in più per attirare lo sguardo del consumatore. Secondo, dimostrare la “forza” e familiarità dei prodotti; una volta catturato lo sguardo, nonostante la semplicità dei disegni il messaggio che passa è uno: “non fare finta di non capire chi sono, tu mi conosci benissimo, talmente tanto bene che non devo neanche scrivertelo”.

Per concludere aggiungo un dato fornito dal sito del Mc Donald’s: impilando 3.374 Big Mac uno sopra l’altro si eguaglierebbe l’altezza della Tour Eiffel. Ovviamente il dato in se è totalmente inutile, ma mi ha dato lo spunto per immaginare un hamburger tower sfidare per longevità nel corso dei prossimi secoli la torre simbolo di Parigi; tutto ciò sarebbe possibile grazie alla capacità dimostrata negli anni passati dal famoso hamburger di persistere sia agli attacchi dei suoi detrattori – nonostante le critiche, il Big Mac è sempre lì – che a quelli dei microbi e dei batteri – vedi un recente articolo di Internazionale[3], o quello del Telegraph di qualche anno fa[4].


Eric Martignon




[1] Chi ha sostenuto un esame di macroeconomia dovrebbe già conoscerlo: introdotto nel 1986, l’indice si basa sulla teoria della parità dei poteri d’acquisto (in inglese PPP aka purchasing-power parity), secondo cui nel lungo periodo i tassi di cambio tenderebbero a convergere verso un valore che eguagli il prezzo di un medesimo paniere standard di beni. Per esempio, a gennaio 2015 in America il prezzo medio del Big Mac è stato di 4,79$ mentre in Cina per lo stesso panino bastava pagare 2,77$. In questo caso l’indice indica che il yuan era sottovalutato del 42%. Link al sito ufficiale: http://www.economist.com/content/big-mac-index?fsrc=PS/cemea/ggl/gen/big-mac-index
[3] http://www.internazionale.it/notizie/2015/02/05/webcam-sull-ultimo-hamburger-d-islanda
[4]  http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/northamerica/usa/10015137/McDonalds-hamburger-looks-the-same-after-14-years.html

martedì 3 febbraio 2015

Bic: Big Instrument of Commercialization

Pensate ad un oggetto comune. Un oggetto che abbiamo tutti in casa, che abbiamo usato almeno una volta nella vita e di cui non possiamo fare a meno. Fatto? Bene! A quanti di voi è venuta in mente la penna a sfera o l’accendino o il rasoio?! Vuol dire che avete pensato alla BIC. La storica azienda francese oramai è entrata stabilmente nelle nostre vite con oggetti di piccolo uso, di cui però non possiamo fare più a meno. Ma cosa c’è dietro quest’azienda che produce due tra gli oggetti più “rubati” al mondo?! Scopriamolo insieme…


La Bic nasce nel 1945 dal barone di origine italiana Marcel Bich e da Eduard Buffard. I due, già grandi esperti del settore della cancelleria comprano una fabbrica di matite e penne stilografiche. Nel 1950 Marcel Bich presenta la prima penna a sfera della storia col nome BIC; il nome deriva dall’eliminazione dell’ “H” finale del suo cognome per evitare una possibile pronuncia inappropriata in lingua inglese (Bich -> ing. Bitch, cagna. Epiteto offensivo equivalente a sgualdrina). Nel 1954 sbarca per la prima volta in Italia e da quel momento ebbe una rapida diffusione in tutto il mondo. Nel 1972 l’azienda si quota per la prima volta in borsa. Tra il 1973 e il 1975 lancia sul mercato l’altro gli atri due suoi prodotti di largo consumo, l’accendino e il rasoio, rafforzando sempre la sua posizione e diventando una vera e propria potenza economica poco sotto le grandi aziende multinazionali. Nel 2005 l’azienda pubblicò la notizia di aver venduto 100 miliardi di penne usa e getta, diventando così la penna più venduta al mondo.


 Ma qual è la strategia vincente adottata da quest’azienda? L’azienda semplicemente punta a soddisfare le esigenze in continuo cambiamento delle persone attraverso la creazione di strumenti semplici, ingegnosi e a basso costo, tramite una strategia di “pricing push”. Da sottolineare comunque la campagna di comunicazione dell’azienda quando sbarcò in America. Gli americani inizialmente infatti erano refrattari all’utilizzo di questa nuova penna.  La diffusione delle BIC cominciò ad aumentare con l’abbassamento drastico del costo della penna, da 29 centesimi a 10 che sommato alla campagna pubblicitaria lanciata in televisione, che recitava lo slogan "Writes first time, every time" (Scrive la prima volta, ogni volta), hanno permesso una maggiore penetrazione del mercato statunitense.



Un ultimo dato degno di nota da sottolineare è l’accordo nel 2009 di una Partenership con Cello Pens, azienda indiana di cancelleria che ha aperto alla Bic il mercato indiano e successivamente quello asiatico.



Rileggendo quest'articolo mi sono reso conto del perchè i prodotti Bic sono i più usati, diffusi e anche "rubati" al mondo. A parte scherzi, per essere vincenti non serve una strategia complessa o una comunicazione d'impatto, basta solo capire come soddisfare le esigenze del target in maniera semplice e funzionale.


(Fonte:Wikipedia, it.bicworld.com/about-bic/history.html)
(Beppe Doronzo)

venerdì 30 gennaio 2015

Barbie: oltre i glitter!

Sono ben 56 anni che la biondina Barbie strizza l’occhio e ammicca a intere generazioni, ma cosa si nasconde dietro cotanto fascino, e soprattutto cosa spinge, ancora oggi, le masse ad acquistare un assemblaggio di plastica inanimato e grezzo?

Definire una strategia di marketing quella mossa dalla Mattel è limitativo, siamo infatti di fronte a un piano strategico che ha nettamente anticipato le mosse future degli attuali manager. Possiamo infatti affermare che la Barbie, oggi ma anche 56 anni fa, è un prodotto 3.0! Kotler ha spiegato come il marketing si sia evoluto, partendo da un grossolano 1.0 orientato esclusivamente alle vendite dei prodotti fino ad arrivare al futuristico 3.0 “i valori al centro!”, passando per l’attuale focus sul consumatore chiamato anche 2.0.

Dire che la nostra Barbie sia 3.0 non è azzardato, da sempre la biondina è simbolo del sogno di ogni bambina che costi quel costi vuole giocare con l’unica bambola che sia degna di attenzioni, che sia il voler emularla o il voler “sognare” insieme a lei, a noi non interessa! La barbie ha sempre avuto come core business “i valori”, che siano materiali e non adatti ai bambini, ci interessa ancor meno.

Ciò che è opportuno osservare invece è come questo inanimato oggetto sia stato capace, ancor prima di Kotler, ancor prima che milioni di ragazzine nascessero, di capire il mercato.
Forse Ruth Handle nel lontano ’59 non avrebbe mai immaginato che sarebbero state vendute ben 3 barbie al secondo, all’epoca la maggior parte delle bambole avevano forme e sembianze da bambine e quando osservando sua figlia che giocava con la sua personale doll vide che sempre più la piccola Barbara faceva assumere ruoli da adulti al giocattolo, ebbe la geniale idea di creare una bambola con forme adulte e che soprattutto rispecchiasse ciò che tutte le donne vorrebbero essere, bella!

Il sogno, l’ambizione e l’emulazione delle più piccole è certamente una strategia moderna di marketing, a capirlo in anticipo lo è stata la casa di produzione, la Mattel, che per rendere sempre più iconica ma anche non veritiera seppur irraggiungibile, crea una vera e propria bibliografia intorno al mito Barbie.  Il nome completo sarebbe Barbara Stefania Roberts, la sua è una famiglia composta da molte sorelle, Skipper, Shelly, Krissy e i gemelli Tutti e Todd. 
Ma di iconico quanto lei c’è solo il fidanzato, Ken, da Kenneth (altro figlio degli inventori).
La lovestory dei due fila dritto per ben 46 anni, poi purtroppo la biondina più famosa al mondo decide di lasciare il suo fiabesco fidanzato per il bello e dannato surfista Blaine. Tra i due però c’è solo un piccolo flirt, e per la gioia di milioni di ragazze che erano incollate agli scaffali ad aspettare il ritorno di fiamma tra Barbie e Ken, nel 2006 la coppia ritorna finalmente a far sognare il mondo
.
Si potrebbe chiamare storytelling? E se lo fosse con quanto anticipo lo abbiamo visto?

In questi giorni però sono arrivate le dimissioni di Bryan Stockton, ma davvero crediamo che la Barbie non faccia tendenza? Rispolveriamo i nostri bauli, diamo una vita nuova a ciò è che stato il nostro passato! La Barbie non può morire, sarebbe come seppellire un pezzo di cuore, o meglio ancora un pezzo di storia. Perché dietro a tanti glitter c’è una donna, e va difesa!   
(Luigi Sciarra)