Quanti di voi
conoscono il Big Mac? Probabilmente il 100% di chi sta leggendo quest’articolo
ne ha mangiato almeno uno nel corso della propria vita e una buona fetta di
questi – che possiamo definire come qualunque persona dotata di coscienza
- si è sentito poi in soggezione difronte al panino considerato uno dei simboli
del capitalismo, della globalizzazione e dell’obesità americana. Pertanto, parlare
del Big Mac non è sicuramente una cosa facile. Fatto sta che quando nel lontano
1968, il franchiser di Pittsbugh Jim Deligatti inventò questo panino non
avrebbe mai immaginato che nel giro di qualche anno sarebbe diventato una delle
cash cow di Mc Donald’s, commercializzato su base planetaria come prodotto di
punta del colosso statunitense.
Risulta comunque
molto difficile riuscire a scindere il successo del Big Mac da quello del Mc
Donald’s stesso. Efficienza, rapidità,
familiarità e standardizzazione dell’esperienza, ovvero riuscire a dare al
cliente la stessa esperienza in ogni Mc Donald’s del mondo, sono gli elementi
su cui si basa il modello del Mc, i quali, mescolandosi chimicamente, hanno
creato l’ecosistema perfetto all’interno del quale inserire un prodotto altrettanto
perfetto. Il Big Mac in questo caso ha calzato a pennello. Un esempio lampante
della notorietà e diffusione del prodotto è sicuramente il Big Mac Index creato dall’Economist, utilizzato in molti manuali per
spiegare la teoria macroeconomica della parità dei poteri d’acquisto[1].
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Fonte: The Economist |
Evitando di
addentrarci in teorie economiche un po’ troppo tecniche, in questo breve
articolo è sicuramente interessante richiamare due strategie di advertising e
comunicazione temporalmente molto distanti tra loro, ma entrambe di successo.
La prima, totalmente sconosciuta al pubblico italiano, consiste nel Two all-beef patties slogan, lanciato
negli anni ’70 negli Stati Uniti e successivamente in altri paesi anglofoni. In
questa campagna, il gingle mandato in onda recitava molto velocemente tutti gli
ingredienti del panino - Two all-beef
patties, special sauce, lettuce, cheese, pickles, onions – on a sesame seed bun[2].
Risultato: ad oggi molti consumatori americani e non, conoscono a memoria gli ingredienti
del Big Mac. Contestualmente veniva indetto un concorso per cui i clienti che
riuscivano a ripetere il gingle in un tempo determinato (3-4 secondi)
ottenevano un panino gratis. Emblema del successo di questa operazione fu il
fatto che dopo la prima messa in onda della pubblicità i Mc Donald’s di New
York si trovarono nel giro di qualche giorno completamente a corto di Big Mac.
Il secondo esempio di
comunicazione efficiente è invece recentissimo. Nelle ultime settimane sono
apparsi dei nuovi cartelloni pubblicitari di alcuni prodotti targati Mc
Donald’s, tra cui il Big Mac. Rispetto alle solite promozioni, queste
affissioni ritraggono i prodotti (Big Mac, Mc Nuggets e patatine) disegnati a
colori in maniera stilizzata, su uno sfondo completamente bianco e senza alcun
tipo di scritta. La scelta di questo stile minimal punta probabilmente ad un
duplice obiettivo. In primis a catturare l’attenzione; in una società in cui il
consumatore è sovra stimolato dalle pubblicità, rendersi “leggero” ed
essenziale è un’arma in più per attirare lo sguardo del consumatore. Secondo,
dimostrare la “forza” e familiarità dei prodotti; una volta catturato lo
sguardo, nonostante la semplicità dei disegni il messaggio che passa è uno:
“non fare finta di non capire chi sono, tu mi conosci benissimo, talmente tanto
bene che non devo neanche scrivertelo”.
Per concludere
aggiungo un dato fornito dal sito del Mc Donald’s: impilando 3.374 Big Mac uno
sopra l’altro si eguaglierebbe l’altezza della Tour Eiffel. Ovviamente il dato
in se è totalmente inutile, ma mi ha dato lo spunto per immaginare un hamburger tower sfidare per longevità
nel corso dei prossimi secoli la torre simbolo di Parigi; tutto ciò sarebbe
possibile grazie alla capacità dimostrata negli anni passati dal famoso
hamburger di persistere sia agli attacchi dei suoi detrattori – nonostante le
critiche, il Big Mac è sempre lì – che a quelli dei microbi e dei batteri –
vedi un recente articolo di Internazionale[3],
o quello del Telegraph di qualche anno fa[4].
Eric Martignon
[1] Chi
ha sostenuto un esame di macroeconomia dovrebbe già conoscerlo: introdotto nel
1986, l’indice si basa sulla teoria della parità dei
poteri d’acquisto (in inglese PPP aka purchasing-power parity), secondo cui nel
lungo periodo i tassi di cambio tenderebbero a convergere verso un valore che
eguagli il prezzo di un medesimo paniere standard di beni. Per esempio, a gennaio
2015 in America il prezzo medio del Big Mac è stato di 4,79$ mentre in Cina per
lo stesso panino bastava pagare 2,77$. In questo caso l’indice indica che il
yuan era sottovalutato del 42%. Link al sito ufficiale: http://www.economist.com/content/big-mac-index?fsrc=PS/cemea/ggl/gen/big-mac-index
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