venerdì 13 febbraio 2015

Wonderbra: mai più in alto!


Lo ricordate?






Era il 1994 quando Eva Herzigova, per lanciare il primo push-up al mondo, esordiva su un cartellone pubblicitario così: “Hello boys”.

Il claim, che tanto è piaciuto agli uomini ma che ha anche incuriosito tutte le donne, ha avuto un impatto gigantesco, diventando così icona indiscussa dell’intimo. Addirittura la leggenda narra che negli incroci dove il cartellone era esposto siano raddoppiati il numero di incidenti, diciamo la verità, tutti avremmo girato la faccia per guadare quel decolletè!
Ad incoronare il successo della campagna arriva l’esposizione al Victoria and Albert Museum di Londra, ed è stato votato tra i migliori cartelloni pubblicitari del secolo!
Da allora però il modo di fare comunicazione della Wonderbra non ha mai perso smalto!












Ma cosa si cela dietro a tanta genialità?

Wonderbra viene lanciato nel 1994 nel mercato USA, il nome deriva dall’innovazione tecnologica, infatti con l’inserimento di una barra diagonale all’interno della classica coppa e allacciando il tutto alla tracolla, il risultato è uno stato di piacere generato dal sostegno recato ma anche dalla libertà di movimento concessa. Un reggiseno super, wonderbra.

Più recentemente, nel 2008,  ben 3000 donne del Regno Unito dichiarano il push-up come la più grande innovazione di sempre, addirittura le intervistate hanno quasi raggiunto l’unanimità sulla scelta del wanderbra.

Tutto questo perché, come vi abbiamo già raccontato per la Barbie (vedi articolo http://pop-idea.blogspot.it/2015/01/barbie-oltre-i-glitter.html) anche il "deccolletè delle meraviglie" si riferisce solamente a un pubblico femminile mettendo anche esso al centro i valori. 

Questa volta però cerchiamo di capire quali siano i benefici e gli attributi di questo indumento con uno strumento markettaro: la catena mezzi-fini.




Elaborazione propria su adattamento della tecnica MeansEnd chain.

La catena mezzi-fini si propone di analizzare e descrivere la rete di legami esistente tra prodotto e consumatore, individuando le caratteristiche (attributi) che il consumatore considera più importanti nella scelta di un prodotto e collegandole ad un modello sequenziale di motivazioni. All’interno del modello gli attributi del prodotto rappresentano i mezzi in grado di produrre benefici, a loro volta idonei a soddisfare i valori degli individui, cioè il fine: da cui il termine “analisi mezzi-fini” (o MeansEnd Chain Analyses).

Gli attributi sono elementi relativamente concreti e oggettivi, che si riferiscono alle caratteristiche specifiche del prodotto, quali la quantità di grasso, l’aspetto, l’origine, il metodo di produzione ecc. I benefici, essendo conseguenze dell’uso del prodotto, possono essere ad esso funzionali (tangibili) o intangibili (psicologici: come mi sento?; sociali: come mi vedono gli altri?). I valori sono gli obiettivi astratti e le preoccupazioni motivazionali (ad esempio, il divertimento, il rispetto personale, la sicurezza, ecc.). Essi rappresentano gli ideali più elevati dell’individuo, i sentimenti e il modo in cui gli altro lo considerano[1]

Nel nostro caso una soluzione innovativa, sommata a un design aggressivo portano ad un valore finale che è non solo la bellezza ma anche l’accettazione del proprio corpo. Il benessere e la sicurezza, il sostegno e la comodità sono i benefici funzionali e simbolici che provengo dall' innovazione dell’irrinunciabile reggiseno.

È inutile dire che i valori siano l’ingrediente segreto per una ricetta vincente, se però a tutto questo inseriamo un pizzico di ironia e vivacità che la nota società è riuscita ad avere, il successo è assicurato!

Ah dimenticavo, se indossi un wonderbra in metro…  stai dietro alla giusta linea gialla!


                                                                                                                      Luigi Sciarra



[1] Materiale didattico Seconda Università degli Studi di Napoli, Capua, anno 2013-14

sabato 7 febbraio 2015

Un Big Mac è per sempre


  Quanti di voi conoscono il Big Mac? Probabilmente il 100% di chi sta leggendo quest’articolo ne ha mangiato almeno uno nel corso della propria vita e una buona fetta di questi – che possiamo definire come qualunque persona dotata di coscienza - si è sentito poi in soggezione difronte al panino considerato uno dei simboli del capitalismo, della globalizzazione e dell’obesità americana. Pertanto, parlare del Big Mac non è sicuramente una cosa facile. Fatto sta che quando nel lontano 1968, il franchiser di Pittsbugh Jim Deligatti inventò questo panino non avrebbe mai immaginato che nel giro di qualche anno sarebbe diventato una delle cash cow di Mc Donald’s, commercializzato su base planetaria come prodotto di punta del colosso statunitense. 
Risulta comunque molto difficile riuscire a scindere il successo del Big Mac da quello del Mc Donald’s stesso. Efficienza, rapidità, familiarità e standardizzazione dell’esperienza, ovvero riuscire a dare al cliente la stessa esperienza in ogni Mc Donald’s del mondo, sono gli elementi su cui si basa il modello del Mc, i quali, mescolandosi chimicamente, hanno creato l’ecosistema perfetto all’interno del quale inserire un prodotto altrettanto perfetto. Il Big Mac in questo caso ha calzato a pennello. Un esempio lampante della notorietà e diffusione del prodotto è sicuramente il Big Mac Index creato dall’Economist, utilizzato in molti manuali per spiegare la teoria macroeconomica della parità dei poteri d’acquisto[1]
Fonte: The Economist

Evitando di addentrarci in teorie economiche un po’ troppo tecniche, in questo breve articolo è sicuramente interessante richiamare due strategie di advertising e comunicazione temporalmente molto distanti tra loro, ma entrambe di successo. La prima, totalmente sconosciuta al pubblico italiano, consiste nel Two all-beef patties slogan, lanciato negli anni ’70 negli Stati Uniti e successivamente in altri paesi anglofoni. In questa campagna, il gingle mandato in onda recitava molto velocemente tutti gli ingredienti del panino - Two all-beef patties, special sauce, lettuce, cheese, pickles, onions – on a sesame seed bun[2]. Risultato: ad oggi molti consumatori americani e non, conoscono a memoria gli ingredienti del Big Mac. Contestualmente veniva indetto un concorso per cui i clienti che riuscivano a ripetere il gingle in un tempo determinato (3-4 secondi) ottenevano un panino gratis. Emblema del successo di questa operazione fu il fatto che dopo la prima messa in onda della pubblicità i Mc Donald’s di New York si trovarono nel giro di qualche giorno completamente a corto di Big Mac. 
Il secondo esempio di comunicazione efficiente è invece recentissimo. Nelle ultime settimane sono apparsi dei nuovi cartelloni pubblicitari di alcuni prodotti targati Mc Donald’s, tra cui il Big Mac. Rispetto alle solite promozioni, queste affissioni ritraggono i prodotti (Big Mac, Mc Nuggets e patatine) disegnati a colori in maniera stilizzata, su uno sfondo completamente bianco e senza alcun tipo di scritta. La scelta di questo stile minimal punta probabilmente ad un duplice obiettivo. In primis a catturare l’attenzione; in una società in cui il consumatore è sovra stimolato dalle pubblicità, rendersi “leggero” ed essenziale è un’arma in più per attirare lo sguardo del consumatore. Secondo, dimostrare la “forza” e familiarità dei prodotti; una volta catturato lo sguardo, nonostante la semplicità dei disegni il messaggio che passa è uno: “non fare finta di non capire chi sono, tu mi conosci benissimo, talmente tanto bene che non devo neanche scrivertelo”.

Per concludere aggiungo un dato fornito dal sito del Mc Donald’s: impilando 3.374 Big Mac uno sopra l’altro si eguaglierebbe l’altezza della Tour Eiffel. Ovviamente il dato in se è totalmente inutile, ma mi ha dato lo spunto per immaginare un hamburger tower sfidare per longevità nel corso dei prossimi secoli la torre simbolo di Parigi; tutto ciò sarebbe possibile grazie alla capacità dimostrata negli anni passati dal famoso hamburger di persistere sia agli attacchi dei suoi detrattori – nonostante le critiche, il Big Mac è sempre lì – che a quelli dei microbi e dei batteri – vedi un recente articolo di Internazionale[3], o quello del Telegraph di qualche anno fa[4].


Eric Martignon




[1] Chi ha sostenuto un esame di macroeconomia dovrebbe già conoscerlo: introdotto nel 1986, l’indice si basa sulla teoria della parità dei poteri d’acquisto (in inglese PPP aka purchasing-power parity), secondo cui nel lungo periodo i tassi di cambio tenderebbero a convergere verso un valore che eguagli il prezzo di un medesimo paniere standard di beni. Per esempio, a gennaio 2015 in America il prezzo medio del Big Mac è stato di 4,79$ mentre in Cina per lo stesso panino bastava pagare 2,77$. In questo caso l’indice indica che il yuan era sottovalutato del 42%. Link al sito ufficiale: http://www.economist.com/content/big-mac-index?fsrc=PS/cemea/ggl/gen/big-mac-index
[3] http://www.internazionale.it/notizie/2015/02/05/webcam-sull-ultimo-hamburger-d-islanda
[4]  http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/northamerica/usa/10015137/McDonalds-hamburger-looks-the-same-after-14-years.html

martedì 3 febbraio 2015

Bic: Big Instrument of Commercialization

Pensate ad un oggetto comune. Un oggetto che abbiamo tutti in casa, che abbiamo usato almeno una volta nella vita e di cui non possiamo fare a meno. Fatto? Bene! A quanti di voi è venuta in mente la penna a sfera o l’accendino o il rasoio?! Vuol dire che avete pensato alla BIC. La storica azienda francese oramai è entrata stabilmente nelle nostre vite con oggetti di piccolo uso, di cui però non possiamo fare più a meno. Ma cosa c’è dietro quest’azienda che produce due tra gli oggetti più “rubati” al mondo?! Scopriamolo insieme…


La Bic nasce nel 1945 dal barone di origine italiana Marcel Bich e da Eduard Buffard. I due, già grandi esperti del settore della cancelleria comprano una fabbrica di matite e penne stilografiche. Nel 1950 Marcel Bich presenta la prima penna a sfera della storia col nome BIC; il nome deriva dall’eliminazione dell’ “H” finale del suo cognome per evitare una possibile pronuncia inappropriata in lingua inglese (Bich -> ing. Bitch, cagna. Epiteto offensivo equivalente a sgualdrina). Nel 1954 sbarca per la prima volta in Italia e da quel momento ebbe una rapida diffusione in tutto il mondo. Nel 1972 l’azienda si quota per la prima volta in borsa. Tra il 1973 e il 1975 lancia sul mercato l’altro gli atri due suoi prodotti di largo consumo, l’accendino e il rasoio, rafforzando sempre la sua posizione e diventando una vera e propria potenza economica poco sotto le grandi aziende multinazionali. Nel 2005 l’azienda pubblicò la notizia di aver venduto 100 miliardi di penne usa e getta, diventando così la penna più venduta al mondo.


 Ma qual è la strategia vincente adottata da quest’azienda? L’azienda semplicemente punta a soddisfare le esigenze in continuo cambiamento delle persone attraverso la creazione di strumenti semplici, ingegnosi e a basso costo, tramite una strategia di “pricing push”. Da sottolineare comunque la campagna di comunicazione dell’azienda quando sbarcò in America. Gli americani inizialmente infatti erano refrattari all’utilizzo di questa nuova penna.  La diffusione delle BIC cominciò ad aumentare con l’abbassamento drastico del costo della penna, da 29 centesimi a 10 che sommato alla campagna pubblicitaria lanciata in televisione, che recitava lo slogan "Writes first time, every time" (Scrive la prima volta, ogni volta), hanno permesso una maggiore penetrazione del mercato statunitense.



Un ultimo dato degno di nota da sottolineare è l’accordo nel 2009 di una Partenership con Cello Pens, azienda indiana di cancelleria che ha aperto alla Bic il mercato indiano e successivamente quello asiatico.



Rileggendo quest'articolo mi sono reso conto del perchè i prodotti Bic sono i più usati, diffusi e anche "rubati" al mondo. A parte scherzi, per essere vincenti non serve una strategia complessa o una comunicazione d'impatto, basta solo capire come soddisfare le esigenze del target in maniera semplice e funzionale.


(Fonte:Wikipedia, it.bicworld.com/about-bic/history.html)
(Beppe Doronzo)